sabato 13 ottobre 2007

Storia bielorussa

Il mio amico Anatoli e' di Senozatki (si pronuncia sienojatki), un villaggio vicino a Bobruisk, in Bielorussia. Alcuni anni fa (settembre 2000), sulla rivista "La nuova Europa" - edita da La Casa di Matriona Seriate (BG)- mi e' capitato di leggere un articolo di una liceale russa che aveva vinto un importante premio. I dati geografici segnalavano che il villaggio di cui si parlava nell'articolo, poteva essere il paese di Anatoli. Ho verificato tutto con l'aiuto della Yulia: era proprio cosi'. Mi sentivo come se avessi vinto alla lotteria. Ecco il racconto della famiglia di Yulia Nesteruk (La nuova Europa n° 5/2000 pagine 76/86)


La casa natale di Marc Chagall a Vitebsk (Bielorussia)

Julija Nesteruk
9a CLASSE, GINNASIO DI VELIKIE LUKI (REGIONE DI PSKOV)

In me scorre sangue bielorusso, russo e in parte anche polacco. E, credetemi, non lo dico né per snobismo né per disprezzo delle radici etniche. Mi sento un essere umano, vivo e amo la mia Russia, senza per questo rompere i legami di sangue con la terra degli avi, la mia Bielorussia. Ma...
Ma la grande politica ha diviso due popoli, due vicini, due fratelli di sangue. Nella storia c'è stato un po' di tutto: talvolta se le diedero di santa ragione, tentarono di far mettere a posto la testa agli altri (con le «cravatte del generale Murav'ev», cioè impiccando la gente), si scagliarono offese, ma versarono anche il proprio sangue insieme sui campi di Griinewald, Borodino e Stalingrado. Ci fu anche una penetrazione reciproca delle culture, e poi la grande cultura della Russia del XIX secolo, che diede impulso alla rinascita dell'autocoscienza bielorussa. Infine, i recenti avvenimenti: il «divorzio» civile dopo decenni di convivenza...
Sulla soglia del nuovo millennio i popoli di mia madre e mio padre, russi e bielorussi, si stanno riunendo nuovamente. È già stato firmato l'accordo sull'Unione fra Russia e Bielorussia, e si spera che la nuova integrazione democratica non ricada negli errori del passato, che i bielorussi non si trovino cioè di nuovo nella situazione di «fratello minore»...
Nella mia ricerca tento di collegare la storia della mia famiglia agli avvenimenti storici epocali che hanno accomunato due popoli nel XX secolo: la vita contadina nella Bielorussia sovietica e polacca all'inizio degli anni '30, il processo di unificazione nel 1939 (interessante osservare come si discosti la cronaca familiare dalla storia ufficiale del problema), le repressioni staliniane che si abbatterono indistintamente su tutti i popoli, le tragiche pagine della guerra del 1941-45 (in cui non è semplice distinguere fra «nero» e «bianco»), la vita del dopoguerra, con la sua lotta quotidiana per la sopravvivenza e per una vita dignitosa dei propri figli.

I Senozenskie-Vojnic

La mia bisnonna Juzefa da ragazza si chiamava Senozenskaja-Vojnic. Suo padre Jas' proveniva da una famiglia nobiliare, di fede cattolica. Tutta la famiglia aveva par-tecipato attivamente all'ultima insurrezione polacco-bielorussa contro lo zarismo nel 1863, al grido: «Per la nostra e la vostra libertà!».
Quando la rivolta fu sedata, i miei familiari subirono repressioni: furono deportati tutti e persero i loro possedimenti, il villaggio di Senozatki nella regione di Gomel'. Anche quando ebbero la possibilità di tornare in patria, le persecuzioni non cessarono: fu loro impedito di acquistare della terra, potevano solo affittarla. Quelli che passarono all'ortodossia, invece, riacquistavano i loro privilegi. Tuttavia, nonostante le restrizioni, i nobili vivevano con una certo agio: avevano del bestiame, macchine agricole, prendevano a servizio braccianti, davano un'istruzione ai figli. E non vivevano solo di agricoltura: sposandosi, sovente si trasferivano in città.
La mia bisnonna Juzefa, nata nei primi anni del XX secolo, ricordava bene gli avvenimenti rivoluzionari: fu allora che si dileguò la maggior parte dei risparmi della famiglia. Suo padre li conservava in biglietti da cento rubli. Juzefa ricordava che nel 1917 era andata con suo padre a Vil'no, allora capitale della regione della Bielorussia, e suo padre non voleva spendere i nuovi «kerenki» per comperarle un anellino d'oro. Di li a un paio di mesi i «kerenki» divennero carta straccia. Si riuscì però a conservare qualcosa degli ori di famiglia. Anelli, monete coniate all'epoca degli zar, fotografie di famiglia e un bellissimo tappeto ricamato a fili d'oro e d'argento vennero nascosti e custoditi anche in tempo di guerra, e Juzefa poté trasmetterli alle figlie.
All'inizio degli anni '20 Juzefa si sposò con Eduard Senozenskij. Allora non esistevano ancora i kolchoz. Nel vicino villaggio di Antusi c'era una chiesa cattolica, in cui i giovani si unirono in matrimonio.

La collettivizzazione

La famiglia aumentò: nel 1927 a Eduard e Juzefa nacque Feliksa e poi Galina, mia nonna. Di lì a poco cominciò la collettivizzazione. Galina ricorda che al nonno portarono via tutti gli attrezzi agricoli e il bestiame. Il nonno non uscì neppure di casa, era in piedi alla finestra e piangeva.
La collettivizzazione cambiò la faccia del villaggio. A Senozatki le case erano cintate da alte palizzate compatte in cui si aprivano portoni di legno. Intorno ai fabbricati delle case c'erano magazzini, depositi, granai, capanni. Dietro le case cominciavano i giardini, poi venivano le aie dove portavano la segale, il frumento e il lino per la lavorazione. Durante la collettivizzazione non si limitarono a requisire il bestiame e i macchinari agricoli, ma smontarono e portarono via anche le costruzioni di legno. Eduard all'inizio degli anni '30 fu richiamato a un'adunata militare, in cavalleria. Era autunno avanzato, si prese una brutta infreddatura e morì di lì a poco a 30 anni circa. Juzefa rimase sola con le due figlie e le due sorelle minori del marito, Jadja e Jan'ka, orfane dei genitori.
Di lì a qualche anno la bisnonna sposò un lontano parente del primo marito, Ivan Grachovskij, figlio di un guardaboschi. Era un uomo buono e cordiale. Lavorava come tutti nel kolchoz. A lui e a Juzefa nacque una figlia, Anna, e qualche anno dopo un maschietto, che però morì ancora in fasce.
Intanto Feliksa cominciò ad andare a scuola. Andava alla scuola polacca di Antusi, che aveva sede nella ex chiesa cattolica, fatta chiudere. Lì andavano a scuola i bam-bini cattolici dei villaggi del circondario; era un'ottima scuola, con dei buoni maestri, vi si insegnava musica, c'erano a disposizione un pianoforte, strumenti ad arco e a fiato. Ma verso la metà degli anni '30 dallo stemma della Bielorussia furono tolte le scritte in polacco e in ebraico. Si cominciò a chiudere le scuole nazionali, venne chiusa anche la scuola di Antusi. Cominciava la russificazione della repubblica.

Le repressioni

A Senozatki non c'era mai stata una situazione semplice, perché gli abitanti erano divisi in tre gruppi distinti, ognuno dei quali aveva un proprio cimitero, una pro-pria scuola, professava una propria religione. Innanzitutto c'erano i bielorussi, cattolici e ortodossi, «nobili» e «contadini». Tra loro la differenza era principalmente religiosa, i «nobili» sapevano il polacco e pregavano nella chiesa cattolica, avevano delle loro tradizioni e guardavano un po' dall'alto in basso i «contadini». Tuttavia nella vita quotidiana usavano il bielorusso, lavoravano in campagna fianco a fian-co con i «contadini» (la rivoluzione aveva livellato le differenze di censo). Questi gruppi inoltre tendevano a mescolarsi: i matrimoni fra «nobili» e «contadini» erano all'ordine del giorno, soprattutto in epoca sovietica. Si differenziavano invece moltissimo dai due primi gruppi i russi "vecchi credenti". Essi vivevano compatti nella loro contrada, parlavano il russo antico dei loro antenati, fuggiti in Lituania alcuni secoli prima per sottrarsi alle persecuzioni religiose. Erano vestiti con lunghe tuniche, pantaloni larghi, gli uomini avevano lunghe barbe; si lavavano tutti insieme nella sauna, adulti e bambini, e se in una scodella aveva mangiato un ortodosso o un cattolico, la davano al cane, se da un boccale aveva bevuto un impuro, lo buttavano via: insomma, avevano degli usi che li differenziavano moltissimo dal resto della popolazione. Si sposavano solo fra di loro. Le differenze confessionali non favorivano l'unità del villaggio, dove si avvertiva sempre la contrapposizione fra i «propri» e gli «altri».
Quando nel paese iniziarono le repressioni, all'NKVD di Rogacev, capoluogo distrettuale, cominciarono a giungere denunce che i cattolici tenevano i contatti con la Polonia e progettavano sabotaggi contro il potere sovietico. A scrivere era un gruppetto di vecchi credenti che si erano allontanati dalle proprie tradizioni. Si ritrovavano alla sauna, bevevano e inventavano delazioni. Cosi furono portati via i Senozenskie, i Grachovkie, i Rudkovskie, i Michajlovskie, i Vitkovskie... A Juzefa portarono via i fratelli Aleksandr e Ignat, entrambi fucilati di li' a un mese a Gomel'. Letteralmente in un paio d'anni non rimase più neppure un uomo cattolico: a Senozatki e nelle cascine adiacenti furono arrestati 58 uomini, nessuno di loro fece ritorno. Da ultimo arrestarono il marito di Juzefa, Ivan Grachovskij. Da uomo cordia-le e generoso qual era, in buoni rapporti con tutti, non credeva che questa sorte sarebbe toccata anche a lui.
In epoca staliniana le denunce si pagavano, e si pagavano bene. Veniva il momento in cui i delatori non avevano più nessuno da colpire, ma volevano continuare la dolce vita. Su Ivan Grachovskij discussero un pezzo, non tutti erano d'accordo di denunciarlo, tanto era un brav'uomo, ma alla fine lo denunciarono. A Juzefa tutto questo lo raccontò molto tempo dopo, già negli anni '60, uno di quella compagnia che era rimasto vivo per miracolo. Gli altri li avevano fucilati i tedeschi: infatti, una vicina di Juzefa aveva voluto vendicare il marito e li aveva denunciati, stavolta ai tedeschi.
Quando vennero ad arrestare Ivan Grachovskij, egli non era in casa: lavorava alla fienagione nei vasti campi che il kolchoz aveva sul Dnepr, a qualche decina di chi-lometri da Senozatki. Juzefa prese della biancheria, degli indumenti pesanti, del cibo e andò con gli agenti dell'NKVD. Ivan accolse serenamente la notizia del- l'arresto. Anche se non ci credeva fino in fondo, evidentemente si era preparato da un pezzo alla sorte che lo attendeva. Poiché era tutto sudato e sporco, chiese il permesso di fare il bagno nel fiume. Gli agenti capivano benissimo che «nemico» fosse questo contadino, e gli diedero subito il permesso. Ivan nuotò fino al centro del Dnepr, abbastanza ampio in quella regione. Chissà quali pensieri aveva in testa in quel momento, ma dove fuggire da questo paese, tanto più se i familiari vi resta-vano in ostaggio? Ritornò a riva, incontro al proprio destino. Non gli avevano attribuito le colpe più nefande, si prese solo 15 anni. Juzefa riuscì a ricevere da lui qualche lettera, e gli spediva a sua volta pacchi di alimentari, abiti pesanti. Poi cominciò la guerra. Solo dopo la guerra si riuscì a sapere che la vita di Ivan si era spezzata nel 1943, dalle parti di Vorkuta.
Gli ultimi anni prima della guerra furono duri. I genitori di Juzefa la aiutavano: avevano delle capre e distribuivano il latte alle famiglie dei loro nipoti rimasti orfani. Inoltre Juzefa riuscì a vendere qualcosa e comperò un vitellino, che col tempo divenne una mucca da latte. Il kolchoz però non permetteva di raccogliere il fieno, e l'estate si trasformava per la famiglia in una vera e propria lotta per procurarselo: falciavano ed essiccavano il fieno nelle paludi e nei luoghi impervi. Juzefa lavorava nel kolchoz, ricevendo in cambio delle sue fatiche alcuni sacchi di grano non mondato. Quando si riusciva a vendere qualcosa, si andava lontano, fino a Minsk, per comperare l'orzo. Per il pane invece si andava a piedi - 25 chilometri - a Rogacev.

La guerra

La guerra arrivò a Senozatki molto in fretta: le truppe dei tedeschi apparvero già all'inizio di luglio. Sullo stradone da Bobrujsk sfilavano motociclette, blindati e autocarri tedeschi. Intorno a Senozatki i nostri reparti combatterono contro i tedeschi vicino alla stazione ferroviaria di Krasnyj Bereg, a 5 chilometri dal villaggio. Un treno blindato copriva col fuoco la fanteria in trincea, ma ben presto si dovette ripiegare oltre il Dnepr, dove si stava preparando in tutta fretta il fronte difensivo. Quando iniziò il combattimento, Juzefa abbandonò il villaggio insieme ai bambini. Tutti gli oggetti di valore erano stati preventivamente nasco-sti, sotterrati in giardino. Dopo qualche giorno fece ritorno al villaggio, occupato dai tedeschi. Alcuni di loro erano alloggiati in casa sua. Pavimenti e porte erano spariti, utilizzati per puntellare le pareti dei sotterranei e delle trincee. La maggior parte degli animali da cortile era stata ammazzata. I soldati sparavano con fucili e mitragliatrici alle oche, vanto di Senozatki. Nel cortile i soldati davano da mangiare ai pulcini rimasti orfani e facevano vedere ai bambini, venuti a guardarli, come si preoccupavano delle ochette, versando loro dell'acqua in una vaschetta. L'umore dei tedeschi era alto, ridevano, suonavano armoniche a bocca e distribuivano cibo ai bambini, se questi gli pelavano le patate. Molti ricordano i lunghi fossatelli, sopra cui erano fissate delle pertiche - i gabinetti tedeschi - su cui i soldati, incuranti della popolazione locale, sedevano a decine per ore leggendo il giornale e godendosi il sole estivo. Di notte Juzefa si introdusse muni-ta di un coltello nel deposito e sgozzò i due porcellini da latte che aveva nascosto. Prima non aveva mai tirato il collo neppure a una gallina, lo faceva fare al padre o ai vicini, ma adesso bisognava dar da mangiare ai figli e dispiaceva che quel ben di Dio andasse perduto. Qualche giorno dopo nel villaggio ricominciarono i combattimenti, e i tedeschi indietreggiarono: era il famoso contrattacco del 63 o corpo di artiglieria al comando di L.G. Petrovskij, che forzò il Dnepr, liberò le città di Rogacev e Zlobin e cominciò a muovere su Bobrujsk. Ben presto però i tedeschi ripresero l'offensiva, verso la metà di agosto la resistenza dell' Armata Rossa fu spezzata e iniziò l'occupazione, che a Senozatki durò circa tre anni.
Quando cominciò la guerra, mia nonna Galina aveva 12 anni, e si ricorda bene di quel periodo. Quando il fronte si spostò verso Oriente, ritornarono al villaggio, ripresero dalle trincee porte e assi del pavimento, risistemarono la casa. Raccolsero quanto era rimasto nei campi abbandonati del kolchoz, per prepararsi in qualche modo all'inverno. Gli occupanti organizzarono anch'essi una sorta di kolchoz, bisognava lavorare anche per i tedeschi. Senozatki era un punto movimentato: la vicinanza del Dnepr, lo stradone facevano sì che nel villaggio vi fossero continua mente degli stranieri, oltre ai tedeschi anche ungheresi, finlandesi, rumeni e italiani. Ungheresi e finlandesi si lasciarono alle spalle un cattivo ricordo, erano peggiori dei tedeschi da tutti i punti di vista. I rumeni erano furbi ma pacifici, mentre gli italiani erano allegri e cordiali. Alla fine della guerra, quando l'Italia si ritirò dalla guerra, gli italiani laceri ed estenuati si misero in marcia per tornare a casa, senza disprezzare nessun lavoro per guadagnarsi da mangiare. In casa nostra conserviamo ancora una coperta militare italiana, barattata da Juzefa per dei viveri con un soldato italiano. Quando nel 1944 le nostre truppe arrivarono al Dnepr, Senozatki venne a trovarsi proprio nelle retrovie della difesa tedesca, ed era pieno di reparti in ritirata: il villaggio fu bombardato più volte dalla nostra aviazione, alcuni abitanti perirono direttamente nelle proprie case. Immediatamente prima della liberazione a Senozatki erano di stanza truppe di Vlasov. I nostri stavano per arrivare, e si vedeva com'erano inquieti nell'animo questi uomini. Cercavano ogni pretesto per parlare con la popolazione locale, tentavano di giustificarsi per essersi schierati con i tedeschi. A nonna Galina è rimasto impresso un ragazzo giovane, ex-sotto-tenente dell'Armata Rossa. Si ritiravano verso Bobrujsk. Non è difficile indovinare la loro sorte: finirono nella sacca di Bobrujsk e molto probabilmente vennero fucilati dai reparti d'assalto dell'Armata Rossa, che non prendevano prigionieri i vlasoviani.

Dopo la guerra

Durante il periodo dell'occupazione a Senozatki non c'era nessuna scuola, mentre bisognava a tutti costi terminare la scuola dell'obbligo. Era l'unica possibilità per poter continuare gli studi e abbandonare il kolchoz. Approfittando del fatto che i documenti erano bruciati insieme al soviet del villaggio, Juzefa chiese per le figlie maggiori dei nuovi documenti che le ringiovanivano di tre anni, compensando così gli anni sottratti loro dalla guerra, e davano loro la possibilità di tornare senza preoccupazioni sui banchi di scuola.
Dopo la scuola dell'obbligo Galina entrò all'istituto di pedagogia di Bobrujsk. La città era stata gravemente danneggiata dalla guerra. Nel convitto non c'era posto, Galina abitò dapprima presso lontani parenti, poi affittò un appartamento. Era difficile prepararsi alle lezioni, mancavano i libri, e gli studenti di sera correvano per tutta Bobrujsk per scambiarsi i libri necessari allo studio. La borsa di studio non bastava a mantenersi. Anche Juzefa non aveva soldi, per questo tutte le domeniche bisognava tornare a casa, la maggior parte delle volte sulla piattaforma esterna del treno, per prendere i generi alimentari necessari per la settimana. Era duro, e veniva voglia di abbandonare lo studio, di non tornare più a Bobrujsk, di restare a casa. Ma ogni settimana Juzefa prendeva per mano la sua Galja e la accompagnava per 5 chilometri fino alla stazione ferroviaria.
Dopo due anni, improvvisamente l'istituto di Bobrujsk chiuse, e gli studenti furono distribuiti in altri istituti. Un'amica convinse Galina ad andare a Brest, dove viveva suo fratello. Al termine degli studi mia nonna fu inviata nel villaggio di Novoselki, in provincia di Dyvin', ad insegnare come maestra di scuola elementare.

I Nesteruk

Vasilij Nesteruk, mio nonno, nacque nel 1924 in una grande famiglia contadina. I suoi genitori, Kirill ed Elena, avevano nove figli, di cui solo sei raggiunsero la maggiore età.
In quegli anni la Bielorussia occidentale faceva parte della repubblica polacca. La famiglia del nonno, come gli altri abitanti del villaggio, lavorava la terra, di cui possedeva alcuni ettari (lino, segale, frumento, bestiame).
Molti compaesani del nonno erano stati costretti ad emigrare per trovar lavoro, soprattutto in America settentrionale e meridionale, ma anche in vari paesi europei e addirittura nella lontana Australia. I giovani, senza legami familiari, in genere trovavano nelle terre d'oltre oceano una nuova patria, mentre chi aveva famiglia, per la stragrande maggioranza, dopo aver messo da parte i soldi necessari, ritornava al lavoro dei campi. Così aveva fatto anche il mio bisnonno Kirill, che lavorando in America era riuscito a migliorare le proprie finanze. Nell'album di famiglia si conserva una sua foto americana: attillato, vestito di tutto punto, un vero signore in bombetta e bastone da passeggio in compagnia di due suoi compaesani.
Come la maggior parte dei contadini della regione di Brest, il bisnonno Kirill era ortodosso, molto serio nelle questioni di fede, tanto da essere eletto capo del consiglio parrocchiale. In quegli anni in Polonia la situazione era dura per gli ortodossi: c'era discriminazione religiosa, e un ortodosso di fatto non aveva la possibilità di fare la minima carriera. Tuttavia solo pochissimi passavano al cattolicesimo, nonostante i vantaggi offerti dallo Stato.
Mio nonno Vasilij frequentava la scuola polacca. Riusciva bene, ma a 13 anni fu costretto ad unire lo studio al pesante lavoro dei campi, perché si ritrovò ad essere l'unico uomo in casa. Il fratello maggiore Fedor si era sposato ed era andato a vivere per conto suo, quando improvvisamente il bisnonno Kirill morì, lasciando tra l'altro alla famiglia dei grossi debiti. Sulle fragili spalle del nonno poggiava tutto il lavoro dell'azienda agricola, e non c'era neppur da pensare a prendere dei braccianti, perché ogni spicciolo risparmiato andava a pagare i debiti e le tasse.

L'unificazione della Bielorussia

Nel settembre 1939 la Germania di Hitler invase la Polonia. I polacchi si difesero valorosamente, ma le forze erano impari. Alla fine di settembre nella regione di Brest entrarono le truppe sovietiche, accolte in modi diversi: la maggior parte della popolazione le salutò festosamente, i polacchi le ritenevano degli occupanti e resistevano come potevano. Ad Antopol' appiccarono il fuoco ad un carro armato dell'Armata Rossa insieme al suo equipaggio. Tuttavia non vi furono grossi scontri, la Polonia capitolò. A Brest cominciarono le sfilate comuni delle truppe sovietiche e fasciste.
Nel 1939 la scuola del nonno divenne russa, apparvero nuovi maestri, al posto dei polacchi scomparsi chissà dove. Alle pareti appesero il ritratto di Stalin. In campa-gna il lavoro era altrettanto duro, invece delle tasse polacche bisognava pagare le tasse sovietiche.
«Stalin si arriccia un baffo, bielorusso, il pan ti arraffo, Stalin allunga un passo, qua il salame e lardo grasso!» agli angoli delle strade i contadini bielorussi cominciavano a inventare e a cantare nuovi stornelli. Dei kolchoz per il momento si sentiva solo parlare, ma le persone più abbienti venivano già portate all'NKVD, e si arrestavano anche i polacchi rimasti.
La gente si avvide chiaramente del luminoso futuro che la aspettava quando, nei pressi del villaggio, gli uomini dell'Armata Rossa cominciarono a costruire un aero-dromo. Per costruire la pista e le strade di accesso all'aerodromo vennero condotti dei detenuti: donne e ragazzi, patiti, laceri ed estenuati, provenienti dai villaggi della Mordovia e della Ciuvascia. La popolazione locale dava qualcosa da mangiare a questi infelici, e parlando con loro fu messa al corrente dei delitti che avevano commesso, consistenti principalmente nell'aver spigolato dopo la mietitura sui campi del kolchoz. Nelle case del villaggio si bisbigliava con terrore di questi fatti.

La guerra

All'inizio della guerra il nonno aveva 16 anni. Il 23 giugno i tedeschi erano già ad Antopol', ben presto giunsero anche nel suo villaggio a Svencici. Al villaggio furono designati un responsabile e un agronomo, che rispondevano alle autorità tedesche. Intanto, nelle paludi e nei boschi che si stendevano subito dietro il villaggio, trovarono rifugio i partigiani. Sorgevano problemi con il cibo: oltre a stabilire l'approvvigionamento dell'esercito tedesco, che il responsabile ripartiva tra le famiglie, il medesimo responsabile stabiliva chi e che cosa dare ai partigiani, che comparivano regolarmente di notte al villaggio. Quindi il lavoro dei contadini non diminuiva. Poiché la scuola rurale era stata riaperta, il nonno riprese a frequentarla rubando un po' di tempo al lavoro. Ma nella primavera del 1942 nel villaggio fece un sopralluogo il commissario del distretto di Kobrin, che ordinò di chiudere la scuola e di spedire contatti tra il battaglione e le compagnie. Giorno e notte, sotto il fuoco dei fucili e delle granate, portava le disposizioni dal comando ai comandanti di compagnia e viceversa. Chiaro che una missione di questo genere non poteva durare a lungo. Un mese e mezzo circa dopo che aveva preso servizio, il nonno fu colpito dalla scheggia di una granata che lo ferì gravemente al fianco, offendendogli il nervo sciatico.
Il nonno festeggiò la vittoria a Char'kov, all'ospedale, e in autunno lo smobilitaro-no. Tornò a casa con le stampelle, la ferita non si rimarginò per più di tre anni. Insomma, fu di poco aiuto per la madre e le sorelle. Il lavoro dei campi continuò a restare sulle spalle delle donne.

La nuova vita

Dopo la guerra il nonno diede gli esami della scuola dell'obbligo ed entrò nell'isti-tuto di pedagogia di Brest. Gli anni di studio, allegri e squattrinati, i viaggi a casa sul tetto dei vagoni merci per procurarsi patate e lardo passarono in fretta, ed eccolo maestro nella scuola del villaggio di Novoselki, dove incontrò la sua futura moglie Galina Senozenskaja.
Da Novoselki la famiglia si trasferl nella regione di Dyvin', dove il nonno divenne direttore di scuola media (nel frattempo aveva terminato la facoltà di pedagogia per corrispondenza). Questa zona, ai confini con l'Ucraina, è famosa per la resistenza popolare contro il potere sovietico. Gli uomini di Mel'nik che controllavano la regione, che durante il periodo dell'occupazione avevano combattuto contro i tede-schi, non accettarono neppure il potere sovietico e continuarono la lotta. Circa quattromila uomini avevano imbracciato le armi nella regione. Gli ultimi focolai di resistenza furono estinti solo alla fine degli anni '50. Quindi i nonni si trovarono a lavorare in una regione tutt'altro che tranquilla; dal momento che i maestri erano identificati automaticamente come attivisti sovietici, capitava addirittura che morissero per mano dei mel'nikoviani. Qui, a Povit', nacquero le mie due zie, Sveta e Alla.
Il nonno non durò a lungò come direttore, dopo qualche anno fu esautorato. Perché? Il figlio di uno dei funzionari della regione non voleva studiare il bielorusso, mentre l'unica scuola era bielorussa. Il nonno insisté, e la cosa gli costò il posto.
A questo punto i nonni si trasferirono nella vicina provincia di Kobrin, cominciaro-no a lavorare come insegnanti alla scuola di Kamenka, costruirono la casa. Qui nac-que mio padre. Studiavano all'università per corrispondenza, educavano i figli. La vita era dura, lavoravano sodo. Per procurare alla mucca il fieno per l'inverno (e senza mucca era impossibile sopravvivere in campagna), capitava talvolta di dover falciare nelle paludi con l'acqua fino alla cintola: non davano la possibilità di fare il fieno altrove, perché non erano lavoratori del kolchoz.
Pian piano i figli sono cresciuti, le zie sono diventate architetti, mio padre medico. I nonni sono andati in pensione, ma continuano ad aiutare economicamente figli e nipoti, e continuano come prima a lavorare sodo in campagna.

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